Anche di questi tempi si può andare in pensione con un numero ridotto di anni di contribuzione, a patto di rispettare una serie di requisiti. Vediamo insieme quali.
“14 anni di contributi per me posson bastare”. Facendo il verso alla leggendaria canzone di Lucio Battisti, ecco il sogno che diventa realtà per tanti aspiranti pensionati dei giorni nostri. In Italia, del resto, non sono pochi i contribuenti che hanno maturato meno di 20 anni di contributi. E una buona fetta si ferma proprio a quota 14. Ovviamente, in questo caso il trattamento economico sarà necessariamente modesto. Ma ci sono moltissimi altri vantaggi.
Il punto fermo da cui partire è che con l’attuale modello contributivo, più anni di contributi vengono versati, più generosa sarà la pensione. La riforma Fornero ha spostato in linea di massima a 67 anni l’età anagrafica per smettere di lavorare, con almeno 20 anni di contribuzione. Ma c’è un dettaglio che può fare la differenza. Se i contributi sono stati versati prima del 1996, anno dell’avvio del modello contributivo, o no.
Se la pensione dei sogni diventa realtà
Il lavoratore o la lavoratrice in regime contributivo puro, cioè con i primi versamenti contributivi successivi al 1° gennaio 1996, può andare in pensione con meno di 20 anni di contributi. Ma dovrà aspettare il compimento del 71° anno di età. Il calcolo è legato al corrente adeguamento dell’età all’aspettativa di vita Istat, per il 2023 fissato a 71 anni.
Se invece l’aspirante pensionato/a ha versato dei contributi prima del 1° gennaio 1996, si ritrova in regime misto (retributivo+contributivo) e non può beneficiare dell’uscita “agevolata”. A quel punto la scelta sarà tra Quota 103, Opzione Donna, Ape Sociale, Rendita Integrativa Temporanea Anticipata, Pensione Anticipata o Uscita agevolata secondo Legge 104. Altrimenti bisognerà aspettare fino al raggiungimento dei requisiti previsti.
Tornando al caso di partenza, andare in pensione con 14 anni di contributi significa ritrovarsi con una pensione annua pari al 25-35% dello stipendio annuo, calcolato in termini di Retribuzione Annua Lorda. Con la forbice che tende ad aumentare o diminuire a seconda che ci si ritrovi nel modello contributivo puro o in quello misto. In soldoni, si passerebbe da uno stipendio di 20.000 euro lordi annui a una pensione tra i 5.000 e i 8.500 euro, sempre lordi annui.
Si tratta dell’opzione della pensione minima, quella prevista per chi ha versato meno di 20 anni di contributi: in tal caso, si ha diritto a un trattamento minimo di circa 571 euro, secondo le ultime disposizioni in materia di perequazione. Diverse anime della maggioranza di governo hanno proposto di innalzare la minima a 1.000 euro entro i 5 anni della legislatura, un obiettivo forse irrealizzabile per via degli altissimi costi che comporterebbe.
Va detto però che dal 2018 è possibile richiedere come aiuto economico la Pensione di Cittadinanza. Parliamo di una misura di contrasto alla povertà delle persone anziane che funziona anche come integrazione della pensione, se troppo bassa. Ne ha diritto chi dichiara un reddito familiare inferiore a 7.560,00 euro nel caso di persone sole, elevato a 9.360,00 euro se il nucleo vive in affitto. L’importo massimo, pari a 780 euro, e tende a diminuire in rapporto al reddito percepito. Sempre meglio che lavorare?